Night train
Dovrebbe essere l’ultimo treno che arriva stanotte, pensò tra sé e sé Ettore. Ormai conosceva a memoria gli orari delle partenze e era arrivato quasi a memorizzare tutti gli arrivi. Pochi secondo dopo, infatti, a mezzanotte passata, l’intercity è entrato nella banchina e si è fermato, accompagnato dal suono stridulo dei dischi rovinati da anni di andirivieni ininterrotto.
«Mezzanotte e ventitre, bastardo di un macchinista», gridava visibilmente alterato, tra uno sputo e un’imprecazione, sfogando tutto il suo turbamento contro la sagoma buia scesa per ultimo, tra i pochi passeggeri assonnati. «Mai che arrivi all’orario esatto, maledetto», concluse al momento. Questi piccoli, impercettibili ritardi lo turbavano parecchio e toccavano proprio quella sua anima ribelle, lui, che invece era stato il classico colletto bianco tutto ufficio e calendario, scadenze e burocrazia.
«La vita è una puttana» era la sua massima preferita e pure Giovanna, sua compagna dell’ultima notte, l’ha dovuta ascoltare almeno dieci volte e per dieci volte non ha avuto altra risposta che annuire sconsolata. Dietro i suoi capelli grigi, sporchi ma con le punte dorate, Giovanna consumava la sua vita cercando di trovare un senso ai vestiti delle ragazze che girano in stazione, spesso con borse di mille colori che sembrano fatte di cartone. O forse di tessuto, chissà. «Sembrano tende di una casa vecchia, l’hai mai notato?» chiedeva irrigidendosi, ma senza aspettare una risposta. Anche perché la risposta se la dava da sola e senza troppi complimenti per quelle povere universitarie, tutto trucco e sorrisetti.
Non era la prima volta che si incontravano e condividevano l’umidità della stazione. Ogni volta che capitava, lo sguardo di Giovanna si posava sempre sulla barba di Ettore. Una barba pulita, sagomata, ricca di riflessi argentei, ma che sembrava uscita dalle cura preziose di un barbiere del corso. Avesse attaccato quella barba sul volto di un giovane uomo in affari, sbarbatello e precisino, nessuno avrebbe detto nulla, anzi! Sarebbe diventato un uomo dal fascino indiscutibile.
«Di preciso hai solo quello, lo sai, pezzo di disgraziato?» gli urla in faccia. E mentre gli rivolge quella dolorosa verità, continua a scrutarlo pur conoscendolo da più di un anno. Ha gli occhi sempre uguali, di chi ha conosciuto il dolore della caduta, ma non il coraggio di rialzarsi. Non sono occhi qualunque e quel verde non è un verde che rasserena. Inquieta, preoccupa. È un verde che tende al grigiore di un’esistenza a metà e gli occhi fanno questo, raccontano la tua vita senza complimenti, onesti come un reo confesso impaurito dalla prigione.
L’orologio segna quasi le 23 e sono le ore di commiato per quest’autunno caldo e puzzolente. La maglietta che indossa Giovanna sotto a una giacca stropicciata è stato un dono di Ettore, sicuramente rubata in qualche mercato rionale. A lei piace ed è molto più che un semplice oggetto: è un ricordo, un segno tangibile di chi l’ha pensata, un’icona che la rende immortale grazie al faccione di Marilyn impresso sul suo seno ormai sempre più deforme. Si sente viva e anche l’olezzo dello sporco e del sudore non sminuisce per nessun motivo il suo desiderio di accompagnarsi a tanti uomini. Però stasera c’è Ettore lì davanti a lei e tra quelle mani ormai rugose vede casa. Vede la porta di nuovo riaprirsi, vede il calore del soggiorno, il colore delle pareti, le immagini di un film nella televisione, riconosce il suono dei piedi che ti vengono incontro. Sente l’abbraccio di Ettore e questo basta.
«Staccati, bagascia d’alto borgo!» ride Ettore mentre la insulta pesantemente. Ma non vorrebbe mai separarsi da lei e quando non la incontra nei rifugi rimediati alla buona in questa stazione così piena di negozi abbandonati si sente un po’ più solo. E non ce la fa e piange. Piange e maledice se stesso. Maledice e invoca la protezione dei santi, che dall’alto dei cieli sicuramente lo guarderanno impietositi, ma che non sembrano scendere sulla terra per tirarlo fuori dal fango dei suoi rimpianti. Ettore guarda le sue scarpe, di una misura più larga, e sorride pensando alla pelle liscia di quelle che indossava neppure troppi anni fa. Nere, comode. Pagate anche molto perché di marca. Eppure tra la suola consumata, la tomaia sporca e i lacci di colori differenti, ci si ritrova. Ritrova il caos che sa di essere, ritrova la sua busta paga estorta dai cravattari, ritrova le sue mille passioni ormai abbandonate, ritrova quanto la vita lo abbia consumato.
Giovanna però finge di allontanarsi, ma il freddo di un inverno appena iniziato li spinge ancora più vicini. Sono soli lungo il corridoio del binario 5, l’ultimo verso un campo verde incolto. Solo una rete oscura pienamente la vista di una villetta in lontananza ancora illuminata a giorno, con delle vetrate immense e delle belle macchine parcheggiate fuori. Ettore la stringe a sé e sente inevitabilmente la forma del suo corpo premere sul cuore. Benedice il momento avvicinandole le labbra all’orecchio: «stanotte sei ciò che la vita mi ha tolto», le sussurra. Lei non risponde, ma stringe di più a sé quell’uomo gracile e se potesse affonderebbe la sua mente affollata di violenza dentro il suo cuore per trovarci un luogo caldo, l’utero da cui ripartire.
L’alba li coglie seminudi, in un amore discreto e delicato, consumato nel pianto di una vita che attende ancora la primavera. Ma l’inverno emette il suo primo vagito e domani Giovanna non sarà ancora lì. Ettore sì, vorrà passare ancora qualche notte in questa stazione a cercare di far quadrare il tabellone orario con le sue nevrosi. Solo allora sarà libero di sommare chilometri a chilometri, confidando che le scarpe reggano e che ci sia il naso alla francese di Giovanna ad aspettarlo ovunque, come fosse casa anche per lui.
«La vita è una puttana», risponde silenziosamente Ettore al buongiorno di un passante che gli regala quanto serve per una colazione al bar appena aperto. Solo il sorriso di Giovanna, inebriato dall’aroma del caffè, gli fa cambiare idea, ma per poco. Finché lei sarà con lui.
Chi commenta