Essere italiani
Ciao a tutti e bentrovati in questo afosissimo (non so voi ma io sudo, anzi, il sudore mi esce manco fossi una fontanella) agosto.
Vi scrivo che sono tornato da una prima tornata di vacanza in quel della Croazia, sull’isola di Brac. Vacanza bella e riposante, piena di bei panorami e un bel mare… quando il sole si degnava di affacciarsi (vero, Yuki? 😉 )! Colgo l’occasione per invitarvi alla visione delle foto già pubblicate sul mio solito fotoblog: potete commentare pure lì le foto, lo sapete?
Torniamo però al titolo del post, titolo – ve ne sarete accorti – impegnativo e a rischio di banalizzazione pura da parte mia. Ormai è diventato un modo di dire, ma spesso mi trovo a chiedere di fare vacanze o di visitare posti al netto degli italiani, ovvero senza che alcun chi di italico incroci il mio quieto camminare.
Perché?
Perché spesso (evito la prima, grande, generalizzazione) gli italiani all’estero sono insopportabili, molto più di quanto spesso lo siano qui in Italia.
Siamo abituati al nostro folklore, tanto che consideriamo normale – accettandolo – che si può parlare a voce alta anche senza l’effettiva presenza di rumore, o che in una fila si fa prima a passare per le vie laterali. Abbiamo esternato con fin troppa gioia (io ero uno di questi) la nostra vittoria al Campionato del mondo del 2006 e da bravi conquistatori pensiamo di poter espandere la nostra supremazia un po’ ovunque. Supremazia da ingegno, da artefizio, da “fatta la legge si trova l’inganno”, da conquistatori accaldati, da chi può far tutto senza che gli si venga detto niente, da chi ha (lo disse Berlusconi forse pensando che anche questo fosse merito suo) il bel tempo e la buona cucina.
I paesi che ci ospitano hanno ormai capito l’andazzo della nostra, tutta presunta, supremazia. E si sono attrezzati, in strutture e spirito per bene accoglierci. Ricordo nel mio ultimo viaggio a Praga, città che amo moltissimo, una discreta ostilità verso noi italiani soprattutto da parte delle istituzioni, così come non vorrei mai trovarmi a discutere con qualsivoglia polizia dei vari stati giustificandomi, oltre che per una presunta colpa, anche per un certo stereotipo in cui si cadrebbe.
Sottilizzando ancor di più (e strizzando l’occhio al rischio) si potrebbe dire che alcuni italiani, tra i tanti, perseverano nel loro essere provinciali. Sì, sapete di chi parlo e so pure che qualcuno di loro leggerà questo post. Cari partenopei, perdonatemi, ma talvolta alcuni di voi sono realmente arroganti, maleducati e omm’e niente. Specie in nave, specie in quei posti dove il resto del mondo è in silenzio e nel rispetto dei propri vicini, specie ovunque il vostro parlare ad alta voce (avete paura di essere inascoltati?) rompe la quiete di un luogo.
Non siete i soli, lo ammetto, ma siete i più.
Torna allora la domanda iniziale: come rispondere alla mia autoctonofobia quando sono all’estero? Quali sono i criteri (ce ne sono?) affinché possiamo tranquillamente definirci italiani e vivere bene con il mondo?
Difficile se non impossibile rispondere a questa domanda, il rischio è cadere nello stesso luogo comune nel quale ho rischiato di cadere prima.
Siamo onesti: ci sono alcune cose ancora comunemente condivise e rispettate dagli altri. Gli altri sanno che molto spesso le nostre capacità sociali sono positive, che sappiamo sorridere ed essere calorosi, che sappiamo farci accogliere e che rispondiamo con l’affetto. Sanno che dalla nostra parte c’è una non rara capacità di ingegnarsi, non per cercare il dolo, ma per cercare di venir fuori alle difficoltà con leggerezza e disimpegno. Sanno pure che l’incontro con un italiano che rispetta ed è educato ripaga dei tanti a-educati irrispettosi compatrioti.
Noi stiamo perdendo quel senso di italianità che a fatica abbiamo costruito nella storia, facendoci strada tra i molti conquistatori di terre e i pochi, ma più radicali, conquistatori d’anime. Tra questi ultimi non siamo ancora riusciti a far da parte il caimano, quello che più ha imposto e inculcato nella nostra testa l’idea di un modo di vivere decerebrato, amorale e quanto più individualistico possibile.
Se portassimo avanti la nostra capacità di rispetto, di umili tentativi di inserirsi – pur se nel breve tempo di una vacanza – nella cultura dei luoghi che visitiamo, sapessimo confonderci nel silenzio dei luoghi che visitiamo, sapessimo ascoltare il rumore del vento e il colore delle onde, trovassimo l’audacia di parlare qualche parola nella lingua del posto (oltre che a un almeno decente inglese), se capissimo che il mondo non è ai nostri piedi semmai noi al cospetto di luoghi e territori da lasciare uguali, se non in condizione migliore di come li abbiamo trovati…. se insomma riuscissimo a fare tutto questo, non potremmo godere di una migliore considerazione da parte degli altri?
Eppure ci vuole poco, realmente. Basta uscire un po’ da se stessi e dal provincialismo della propria coscienza e capire cosa dicono gli sguardi della gente dei luoghi di vacanza. Cosa loro esprimono e cosa cercano di comunicarti. Basta essere un po’ meno italiani per essere ancora più italiani al ritorno in patria… e non c’è dito medio che tenga.
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