Per non dimenticare…
Utilizzo una forma retorica per introdurre il post odierno. Per non dimenticare, l’unica strategia possibile da attuare è il ricordare.
Ricordare, ovvero rinnovare dentro noi stessi, costantemente, ciò che è successo affinché non avvenga più.
Ricoeur, nell’interpretazione di testi di Platone e Aristotele, struttura la memoria attraverso due concetti cardine: l’impronta (tupos) e l’immagine (eikon). Il primo di questi concetti richiama l’incidenza biologica della causa efficiente; il secondo, il ricordo, la rappresentazione mentale dell’accaduto.
Cosa abbiamo noi, come impronta biologica, di Auschwitz ? Notizie, informazioni giunte al nostro orecchio. Solamente questo poiché, fortunatamente, non siamo stati la generazione che ha vissuto e che è morta in quei campi di concentramento.
Come giustificare, allora, in noi l’impronta aristotelica per cui la memoria diviene atto del ricordare?
Non compio giri di parole, arrivando subito al dunque: attraverso l’azione delle tecnologie di massa.
Queste, infatti, hanno un compito morale ben preciso. Quello di ripresentare, senza ostacoli, cesure o emozioni implicite, il dato di fatto, così come documentato allora.
Fortuna volle che alcuni operatori cinematografici entrarono prima dell’esercito nella prigionia di Aushwitz, facendo vedere al mondo ciò che l’uomo era stato capace di fare. L’uomo si sentì annichilito, sconfitto nella sua umanità, pieno di collera e di sdegno, vomitando e stracciandosi le vesti.
Oggi noi abbiamo quei filmati, quelle foto, che fanno ancora male. Abbiamo ancora, in pochi casi, persone sopravvissute ai lager; persone pieni di sensi di colpa che sono riuscite a vincere anche il desiderio di terminare la propria vita intenzionalmente. Molti purtroppo, uno di questi è Primo Levi si sono dimostrati più inclini a chiudere i conti col mondo, quel mondo a cui loro, dopo l’esperienza di reclusione, non si sentivano più di appartenere.
Abbiamo, ritornando al tema centrale, la possibilità di rivivere oggi i drammi del passato. Queste, infatti, non sono solo immagini, oggetti in cui ammirare un panorama piuttosto che una bella persona, perché alla sola vista di corpi ridotti a fantasmi e ammassi di cadaveri, noi stiamo male non potendo provare altre emozioni che disgusto e orrore. Questi documenti irrimediabilmente lasciano in noi una traccia indelebile, un tatuaggio marcato a fuoco sul nostro braccio.
Acquisita l’impronta, per completare il dualismo tupos-eikon, deve esservi in noi l’inclinazione a rappresentarci mentalmente il dramma che abbiamo sperimentato, sebbene da semplici spettatori, direttamente sulla nostra pelle.
Ecco il monito del non dimenticare. L’immagine si forma solo se noi abbiamo presente cosa significa genocidio, shoa e se questo significato lo poniamo come significante della nostra vita. Come significante morale perché ciò non avvenga più, come significante educativo perché possiamo trasmettere alle future generazioni la necessità del ricordo.
Chi commenta